Stephen Lang, William Sadler, Martin Kove, David Patrick Kelly, Fred Williamson.
Nomi che al grande pubblico non dicono nulla ma che fanno sussultare l’appassionato serio di vintage action.
Stephen Lang, 67 anni: stimatissimo attore teatrale ma gavettaro duro al cinema negli 80s, lo si ricorda in Manhunter, Band of the Hand e Tombstone, ha avuto le luci dei riflettori definitivamente su di lui soltanto grazie al ruolo del villain principale in Avatar e confermato carisma inaffondabile in Man in the Dark.
William Sadler, 70 anni: solidissimo background teatrale, villain impeccabile in Die Hard 2, Duro da uccidere, Le ali della libertà, I trasgressori e mille altre cose, insospettabilmente esilarante nel sequel di Bill & Ted in una pausa dalla solita malvagità.
Martin Kove, 74 anni: due ruoli nella leggenda, John Kreese in Karate Kid e Ericson in Rambo 2, e una carriera instancabile che include pure occasionali prove da eroe (recuperate subito Steele Justice), l’abbiamo ritrovato ancora efficacissimo nella seconda stagione di Cobra Kai.
David Patrick Kelly, 69 anni: scolpito negli annali come Luther nei Guerrieri della Notte, è stato anche Sully in Commando, T-Bird nel Corvo e Jimmy Horne in Twin Peaks, è leggendario quando fa il viscido ma in realtà è versatile e con un curriculum che include persino Broadway.
Fred Williamson, 82 anni, arrivato al cinema dopo una carriera da star del football ha accumulato 130 credits dal ’73, è stato protagonista di decine di classici della blaxploitation e action all’italiana, lo si ricorda più di recente anche in Dal tramonto all’alba e il suo status di leggenda è indiscutibile.
Non solo fazze da cinema incredibili, ma tutti attori dal curriculum solido, dotati di carisma e mestiere granitici.
Volti duri e magnetici, ma anche sostanza.
Gente che chiede poco e dà ancora tanto.
La scelta del vero intenditore.
Sigla:
Lo spunto di questo VFW (sta per Veterans of Foreign Wars) è semplicissimo: un futuro lievemente distopico, una nuova droga talmente golosa che non c’è abbastanza offerta per la domanda, la società è allo sbando e la polizia è sconfitta (cioè uguale a giugno 2020 ma con la droga al posto delle tensioni razziali); una ragazzina frega un panetto e si rifugia in un bar di veterani (il sesto nel poster è George Wendt, altro caratterista dalla lunga carriera anche se per lo più in commedie, ma evidentemente passava di lì e ha un ruolo breve); assedio e massacro.
Che altro serve?
È da un po’ di tempo a questa parte, soprattutto da Logan in poi, che leggo tantissimi fans sognare una versione anziana, vissuta e cazzuta dei loro eroi preferiti.
Non mi ha mai veramente convinto eh?
Ci si arriva normalmente da due lati.
In gran parte temo sia semplicemente un altro aspetto della sindrome da cosplay: un semplice rifiuto del tempo che passa, per cui se ad esempio minacciano di rifare Robocop allora il Peter Weller di oggi, un piccolo 73enne pelato e ricurvo che ha chiaramente passato la vita a leggere libri d’arte e storia antica invece che fare palestra, è comunque più somigliante alla versione idealizzata e quindi preferibile rispetto a qualsiasi scattante Joel Kinnaman possano offrirti.
Dall’altra parte questo desiderio è figlio di storie che vanno dal Batman acciaccato di Miller agli Spietati di Eastwood fino appunto a quell’Old Man Logan che ha vagamente ispirato il film: quelle storie che hanno dimostrato che gli eroi nichilisti e arrugginiti ma ancora incazzati, se contestualizzati e raccontati a dovere, funzionano benissimo e hanno un gusto e un fascino crepuscolare tutto loro che gli eroi più tradizionali non hanno. King Conan con Arnold sarebbe bellissimo. E non mi lamenterei di un altro Mad Mel con Max Gibson. Ma quando ad esempio leggo di gente che vorrebbe un terzo Batman con Michael Keaton mi chiedo se abbiano mai davvero visto i primi due.
VFW è comunque esattamente questo tipo di storia, nella sua forma più pura e semplice.
E con l’eccezione di Fred Williamson – vera ex-star e pure tra i pionieri del filone revival action per pensionati con il proto-Expendables Original Gangstas del 1996 (regia di quella volpe di Larry Cohen, cast di vecchie glorie blaxploitation come Richard “Shaft” Roundtree, Ron “Superfly” O’Neal, Pam Grier e l’altro ex-footballer Jim Brown) – gli altri sono gente che non ha mai avuto la gloria che meritava davvero.
VFW, insomma, è una bellissima idea che mette le persone giuste al posto giusto.
Parliamo quindi dell’autore di questa idea: il signor Joe Begos.
L’ho detto più volte e lo ripeto: Bliss è il mio film preferito dell’anno scorso, almeno in campo horror.
Non me l’aspettavo, eh?
C’è chi aveva apprezzato le precedenti opere del signor Begos (“signore”… ha 33 anni e gira conciato da figlio di Rob Zombie), ma pur notando aspetti salvabili qua e là io non ero fra quelli. Troppo, troppo acerbo.
Poi è arrivato Bliss, illuminato dal sacro furore della fame e della rabbia, istintivo, nichilista, menefreghista, girato totalmente in stato di grazia. Non gli davo due lire, e l’ho applaudito forte.
Di colpo quindi avevo scritto “JOE BEGOS” grosso sul taccuino (fa ridere solo a me il nome? è una cosa dialettale? vabbè non è importante).
La domanda è: si trattava Bliss di un colpo di fortuna, di un lampo momentaneo di ispirazione ultraterrena, di una meteora? Oppure il Joe ha finalmente trovato la sua strada nella vita ed è maturato?
Salta fuori che c’era pochissimo da attendere per la risposta, perché tempo che Bliss finiva il giro dei festival al Frightfest di Londra e questo VFW stava già iniziando il suo dal Fantastic Fest di Austin.
E VFW è il film a cui tanti di noi qui dentro probabilmente penserebbero se avessero una quantità dignitosa di spiccioli da parte.
Sveliamolo subito quindi: ci sono buone e cattive notizie.
Quali volete sentire prima?
Ditemelo nei commenti, vi aspetto.
DVD quote:
“Un film che dà buone e cattive notizie”
Nanni Cobretti, i400calci.com
…sì scusate mi sono reso conto che questa cosa di aspettarvi non ha senso.
Ok mi butto: facciamo i positivi, e i positivi vogliono prima le cattive notizie.
Le cattive notizie sono che il buon Joe ha avuto una bellissima idea e poi detto “bon, a posto così”.
Il lato preoccupante di Bliss è che si trattava sostanzialmente di Driller Killer di Abel Ferrara con gender swap e svolta vampirica, e a sua volta il precedente The Mind’s Eye era Scanners di Cronenberg senza alcuna svolta particolare, e l’esordio Almost Human era un collage di riferimenti anni ’80 riassumibile in “Stephen King in salsa splatter” e ad oggi proprio questo, il suo esordio, è tecnicamente ancora il suo maggior sforzo di fantasia.
Joe Begos fa parte della schiera di quei registi che esistono solo per replicare i loro film preferiti di gioventù, e che nello spettatore non cercano altro che la stessa complicità nostalgica. Ce ne sono mille altri come lui, e ci hanno spaccato il cazzo per almeno un ventennio.
È finita che ci siamo talmente rassegnati al sottogenere che abbiamo creato ulteriori divisioni al suo interno, separando le diverse sfumature di street cred, dal livello più basso di chi ha un’immagine equivoca degli anni ’80 e strizza l’occhio di continuo con trovate superficiali e riferimenti pastrocchiati (tipo Kung Fury) a chi sembra sincero e ricrea efficacemente l’atmosfera in modo sempre citazionista ma tutto sommato naturale e sostanzioso (tipo The Void).
Joe è in quest’ultima categoria: la passione e le credenziali di cinefilo sono inattaccabili, ma non è qua per aggiungere alcunché al discorso.
Anzi, non è qua nemmeno per fare troppo sforzo: è contentissimo di prendere spunti pre-esistenti e cambiare giusto due dettagli qua e là. Ho visto remake/reboot ufficiali cambiare più cose di quante ne modifichi lui, il raro caso in cui viene da dire che tanto valeva tenere anche gli stessi titoli.
VFW non ricalca nessun film in particolare, ma la struttura da assedio è talmente classica da non averne bisogno.
Il problema è che Begos vorrebbe, e dovrebbe, scrivere dei personaggi per la sua squadra di fuoriclasse, e invece non lo fa.
Prende la rincorsa con una lunga scena di dialogo infarcita di banalità trite e insipide, poi inserisce il pilota automatico e lascia che le sue star si dirigano da sole, più come uno spettatore in continua ammirazione dei suoi idoli di nicchia che come un regista.
Lang, Sadler, Kove, Kelly e Williamson vengono forniti di canovaccio e costume, e il resto è affidato alla loro esperienza, che per fortuna è bella ampia.
E riesce a sprecare pure Dora Madison, che dopo avergli retto Bliss da sola viene qui relegata a fare l’ingrato scagnozzo matto con un repertorio di faccette abbastanza standard.
In sottofondo, ovviamente, i mega-synth alla Carpenter.
Le buone notizie: beh, c’è la conferma che guardare quei cinque in azione è effettivamente uno spettacolo, anche se abbandonati a loro stessi e con la continua sensazione che con uno script migliore avrebbero spaccato il mondo. Non è il lavoro migliore di nessuno dei cinque ma, ben capitanati da Lang, si tengono il film in spalla senza problemi.
E poi c’è che l’esperienza di Bliss è servita e la mano di Joe è sempre più solida per quanto riguarda ritmo, stile visivo e una personalità sempre più riconoscibile, anche se la sua fissa per affogare tutto di rosso e blu porta sia a scene fighissime che a momenti semi-incomprensibili.
E infine c’è che su una cosa si è concentrato: il sangue.
Tutto quello che potrebbe affondare un film d’assedio, uno script approssimativo, la minaccia continua di tempi morti e l’occasionale prendersi un po’ troppo sul serio, viene alla fine abbattuto a colpi continui di splatter; fra armi improvvisate, trappole di fortuna e puro sadismo i nostri valorosi boomers passano una buona metà del film a massacrare giovini drogati in modi violenti e creativi come se fossero i vampiri del già citato Dal tramonto all’alba.
Quando la parte action ingrana l’aria da B-movie stiloso conquista, e si viene catapultati effettivamente in una versione esagerata di certa gloriosa exploitation action-punk anni ’80 che ricorda un po’ di tutto, dal Giustiziere della notte 3 a videogiochi stile Final Fight. Diventa il tipo di film in cui scegliere l’omicidio migliore significa riguardarselo, prendere appunti organizzati e fare una severa e rigorosa selezione. Probabilmente diventa anche il tipo di film che, una volta riconosciuti i limiti e abbandonate le aspettative, si riguarda spesso e volentieri.
E quindi insomma Joe Begos, Bliss era stato effettivamente un momento di rabbiosa fulminazione artistica, ma continuerò a tenerti d’occhio.
Non ti chiederò di rivoluzionare il cinema, ma spero di poter sempre contare su di te per 90 minuti di divertente, violento relax.
P.S.: non trovate che nel mucchio ci sarebbe stato bene anche un Michael Ironside? È sicuramente il primo nome che mi viene in mente se penso a grandi e solidissimi cattivi ’80s/’90s ancora in attività e ancora capaci di mangiarsi la scena a comando (si veda Turbo Kid). Per cui vi volevo raccontare un aneddoto su Michael Ironside raccontato anni fa a un Frightfest dal regista di Extraterrestrial: a quanto pare il modo in cui Michael sceglie i progetti su cui lavorare consiste nel farsi spiegare il ruolo e poi suggerire modifiche che non hanno il minimo senso. Se il regista ha le palle di rispondergli “ma checcazzo dici”, lui accetta. Non sto insinuando nulla, ma ci ho pensato.
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