Walter Hill ha segnato indelebilmente l’immaginario del genere action con uno stile inconfondibile: non ha bisogno di introduzioni ma di celebrazioni. In occasione del suo ultimo film, per la rubrica Le Basi, a voi il nostro speciale più ambizioso a lui dedicato. E se adesso vi state chiedendo “maccome, non avevate mai parlato di I guerrieri della notte?!”, sì, certo che ne abbiamo già parlato, vi pare? Per esempio in un bellissimo pezzo inedito scritto da Casanova Wong Kar-wai per Il manuale di cinema da combattimento. Andatevelo a rileggere (perché avete tutti Il manuale di cinema da combattimento, vero?).
Non c’è nessuno che abbia fatto il classico che non si ricordi di Senofonte. [Per sgombrare il campo da ogni dubbio, il classico a Valverde è quel corso di studi che tra le materie ha “menare duro utilizzando tomi di letteratura greca e latina”: una tradizione gloriosa omaggiata, tra gli altri, anche in John Wick 3 – Parabellum, nella straordinaria sequenza in cui John ammazza Boban Marjanovic con un volume della New York Public Library]. «Senofonte è come Cesare, ma in greco». Aahahahaha NO. (O forse sì se eravate forti. Io non lo ero). Ma è probabilmente raccogliendo le lacrime di generazioni di studenti picchiati dalle versioni di greco che Sol Yurick, un assistente sociale newyorkese con una laurea in letteratura e un antico rancore nei confronti di West Side Story, decide di scrivere il suo primo libro, The Warriors: cioè l’Anabasi di Senofonte, però con le pittoresche gang giovanili della degradatissima Grande mela anni 60 al posto dei mercenari greci intrappolati in territorio nemico nel cuore dell’impero persiano del VI secolo a.C. Ottima idea, Sol, gli dice sicuramente qualcuno, pubblicandogli il libro nel 1965. «Ottima idea, Sol» pensa circa un decennio dopo Lawrence Gordon, produttore a cui i 400 calci devono pressoché tutto (tipo Predator, Die Hard, Point Break), acquisendone i diritti cinematografici dopo che un primo tentativo di adattamento si è arenato.
Nel 1978, Gordon ha prodotto già Hard Times e The Driver, e sa che l’unico che può fare questo film è Walter Hill, quindi si precipita da lui col copione di The Warriors che ha fatto scrivere a David Shaber. Hill lo legge e dice «fichissimo, ma non ce lo faranno fare mai». Glielo fanno fare, invece, per la precisione glielo fa fare la Paramount, che in quella fine anni 70 è a caccia di “film per ragazzi”, e cosa c’è di più “per ragazzi” di un film in cui un gruppo di ragazzi (appunto) si veste in tanti modi buffi e si mena fortissimo rischiando continuamente la morte in una città desolata e violentissima? «Il resto è Storia», direbbe Senofonte. Sigla!
[Sì, la sigla era solo una scusa per mettere l’incipit di questo film, ufficialmente votato da una commissione di esperti “uno degli incipit più fighi ever”, è tutto vero, lo dice la scienza]
Di cosa è fatta la sostanza del mito? Qual è il confine tra cronaca, storia e leggenda? L’Anabasi di Senofonte, in teoria, è un testo storico. Anzi, prima ancora, è autobiografico: Senofonte medesimo, che dio l’abbia in gloria, era uno dei Diecimila mercenari di cui sopra, e già che è sopravvissuto a quella sbatta ed è il 400 e qualcosa avanti Cristo decide di inventarsi di punto in bianco un genere letterario nuovo, il memoriale di guerra. Però è indubbio che la storia che racconta, l’impresa dei Diecimila che devono salvarsi raggiungendo il mare e un porto sicuro, tra mille insidie e inseguiti dai nemici, abbia le forme dell’epica. Il mito, in fondo, si trova quasi sempre dentro le storie dritte, quelle che corrono su una linea, da un punto A a un punto B, siano A e B Cunassa e il Ponto Eusino, o il Bronx e Coney Island. Quelle storie a cui puoi togliere tutto, ogni orpello o dettaglio inutile, finché diventano archetipi (o topoi, già che siam qui a fare i grecisti della domenica, anzi del mercoledì), finché tutto quello che viene dopo non è che una variazione sul tema o un omaggio, ripetuto talmente tante volte da dimenticarsi chi e come l’ha originato.
Hill ha già dimostrato che a lui “togliere tutto”, andare all’essenziale, ridurre all’astrattismo, privare i personaggi perfino dei nomi propri per lasciarne solo le funzioni narrative, piace. The Warriors – I guerrieri della notte, naturalmente, in italiano; che non è mica una traduzione sbagliata, ma a dirla tutta ha già un complemento di specificazione di troppo – è un’occasione perfetta. Ci sono degli eroi, con i nomi buffi e insieme altisonanti, l’aspetto sublime tra il ridicolo e il leggendario che possono avere solo gli eroi, e nessun pregresso, nessun background, nessuna contestualizzazione, nessun passato (era stata girata una sequenza iniziale a Coney Island, che si può recuperare, ma per fortuna venne eliminata: la luce del giorno, i nostri eroi, almeno quelli che riusciranno a sopravvivere, la vedranno solo alla fine di questo viaggio al termine della notte). Ci sono un territorio ostile e un obiettivo chiaro. C’è una minaccia che non li molla mai, che li insegue e li assedia, ma c’è anche un codice d’onore. La trama è: bisogna andare da A a B. Possibilmente arrivare a B vivi.
Questo processo di astrazione, di scarnificazione, non è solo un fatto di personaggi o narrazione, ma è esteso da Hill all’intera materia cinematografica. Da subito, da quella prima inquadratura in cui la Wonder Wheel di Coney Island è un disegno di luci al neon su fondo buio pesto. Dal 2005 esiste una Director’s Cut in cui il regista ha potuto inserire alcune caratteristiche che avrebbe voluto mettere fin dall’inizio ma che lo studio nel 1979 gli vietò: un’introduzione (lui l’avrebbe voluta letta da Orson Welles, figuratevi) che richiama direttamente l’Anabasi, e delle transizioni disegnate a fumetti tra le varie “tappe”. Un po’ come con il Blade Runner dello Scott sbagliato, ognuno ha il proprio parere su quale sia la versione migliore, e se sia meglio giurare eterna fedeltà alle sacre intenzioni originarie dell’Autore, o accettare che un film è un’opera collettiva e situata in un tempo preciso, frutto di un’industria, e perciò anche di una serie di più o meno fortunati accidenti. Quello che è certo, però, è che nel 1979, quando The Warriors esce così, senza intro, senza nulla, senza fronzoli, semplice come il suo titolo “scarabocchiato” in scarlatto su fondo nero, è quello che potremmo tecnicamente definire “una bella mina”.
La città è un deserto urbano attraversato dalle geometrie di luci e cunicoli della metropolitana, dalle “pozze d’oscurità” di cimiteri e parchi quasi vuoti. È una terra desolata e lucida, fotografata da Andrew Laszlo che si preoccupa di far mettere in sceneggiatura un acquazzone all’inizio, così che poi tutto possa essere bagnato e brillante, moltiplicando i riflessi e i contrasti vividi. È quasi tutto (fa eccezione lo scontro con i Punks nel bagno della metropolitana) girato on location, nelle vere strade newyorkesi, per settimane di lavorazione solo in notturna, che inevitabilmente si protraggono oltre i piani stabiliti – anche se tutto quanto comunque viene fatto in fretta, con un’urgenza aderente a quella dei Guerrieri in fuga, perché la produzione sa che c’è “un altro film sulle gang” in preparazione, e bisogna riuscire a uscire in sala prima degli altri. Forse anche per questa fretta, o magari perché Hill a quanto pare è uno che sa il fatto suo, il film riesce nel miracolo paradossale di unire “autenticità” e “stilizzazione estrema”. L’azione procede per picchi di tensione e temporanee botte di sollievo, seguite talvolta da quell’euforia immotivata in cui si annida dell’altro pericolo (le gang rivali, gli sbirri, le donne – è un po’ Mascolinità tossica: The Movie questo film? Sì, certo, come la quasi totalità dei nostri miti fondativi). I personaggi sono talmente ridotti all’osso che Hill può decidere a un terzo di film di cambiare eroe principale perché l’attore che lo interpretava, Thomas G. Waites, gli aveva rotto i coglioni: se ne libera facendolo letteralmente finire sotto un treno (per mezzo di una controfigura), e il nuovo protagonista designato diventa, senza passare dal via, Michael Beck (che peraltro pare avesse pure una chimica maggiore con Deborah Van Valkenburgh, quindi tutto è bene quel che etc. etc.).
Il bello è che in tutto questo “togliere”, dentro The Warriors finisce per esserci tantissimo, quasi tutto: Hill avrebbe voluto esplicitare all’inizio un «somewhere in the future» (la Paramount glielo vietò: faceva «troppo Guerre stellari»), e c’è un indubbio carattere distopico, post apocalittico in questa metropoli buia e deserta, dove imperversano bande di ragazzini che, nei piani del compianto messia Cyrus, vorrebbero, anzi, potrebbero “prendersi la città”. Eppure l’ambientazione è contemporanea, figlia di quei Seventies in cui New York era definita, da chi le voleva bene, una fogna a cielo aperto, l’esatto opposto della Times Square “disneyficata” di oggi (oltre che a Martin Scorsese e Paul Schrader, come sempre, volendo approfondire, ci si può rivolgere al più bravo di tutti a raccontare le città, David “The Wire” Simon: ha fatto una serie anche su questa New York qui, s’intitola The Deuce, ci sono due James Franco, e una Maggie Gyllenhaal strepitosa). Molte delle gang, perfino quelle più oltraggiosamente camp come gli indimenticati Baseball Furies, hanno ispirazioni in bande reali dell’epoca, con alcuni membri che infatti parteciparono – con conseguenti problemini di sicurezza, tanto che una vera gang, i Mongrels, venne direttamente assunta per far da security alla troupe – alla realizzazione della sequenza di massa iniziale, il conclave in cui Cyrus spiega il suo piano di conquista del mondo e ci lascia tristemente le penne, seguendo il destino di tutti i rivoluzionari. Lì, tra il pubblico, tra le comparse, c’erano veri appartenenti alle gang e veri sbirri in borghese: guardie e ladri, indiani e cowboy. Sì, è anche un western, naturalmente, The Warriors: l’anima è quella, perché quello volevano fare inizialmente, Hill e Gordon, un’Anabasi western. Ma non c’erano abbastanza soldi, e sai che c’è? La New York degli anni 70, di notte, questa New York parallela che scorre quasi invisibile ma più che mai tangibile accanto a quella delle “persone normali”, è un vero paesaggio di conquista, una wilderness spietata, letale e senza legge, proprio come il vecchio Far West.
È anche un po’ un musical, The Warriors, con buona pace di Sol Yurick, è la versione di menare di West Side Story (ma qui il contesto è talmente disperato e nichilista che ci si può permettere perfino di dare una specie di lieto fine alla sua specie di storia d’amore – sì, c’è anche una storia d’amore! Beh, più o meno, dai). Basterebbe l’entrata in scena super cool delle varie gang in costume, basterebbe l’indimenticabile colonna sonora di sintetizzatori e rock’n’roll che scandisce il ritmo e tiene alta la tensione, basterebbero le labbra della dj che mentre aggiorna il sottobosco criminale sugli spostamenti dei Guerrieri, mentre fa da narratrice e da coro greco, sceglie i brani giusti per commentare gli eventi, per “illustrare l’azione” (Nowhere to Run, guerrieri miei!). E basterebbero le coreografie di lotta, che sono un bell’ibrido violento tra il balletto e il menare duro (tutti gli attori dovettero andare a scuola di stunt; qualcuno ci lasciò comunque arti e costole rotte). Western e musical, in fondo, sono più di tutti i generi dell’astrazione, quelli dove l’immagine può farsi puro segno grafico, e le trame non hanno bisogno di essere niente di più del minimo necessario.
Fatto della stessa sostanza del mito, The Warriors entra lui stesso nella leggenda. Come le vicende dei Diecimila, raccontate da Senofonte, trasfigurate in avventura e poi in epica, salvate da centinaia di anonimi amanuensi attraverso le maree della Storia, e oggi irrorate dalle lacrime e dalle bestemmie di migliaia di studenti del classico, anche l’avventurosa notte dei Guerrieri e la corsa cinematografica di The Warriors si mutano presto in epopea mitologica e diventano parte integrante dell’immaginario collettivo. Quando il film esce, la maggioranza dei critici, come spesso accade, non capisce una mazza e lo stronca (a parte Pauline Kael, una che anche quando non ci capiva una mazza diceva cose abbastanza monumentali, e qui invece ci prende, definendo The Warriors «visual rock»), presa totalmente alla sprovvista dal ribaltamento totale del punto di vista: si parla di gang giovanili e di delinquenza, ma nessuno fa la morale, nessuno si angustia torcendosi le mani e mormorando «dove andremo a finire, signora mia», nessuno pensa ai bambini. No, il punto di vista di The Warriors è quello dei suoi “bambini” protagonisti, e lo esplicita in una delle sue scene più belle (anche se è una di quelle in cui non si mena nessuno): l’incontro in metropolitana dei Guerrieri sopravvissuti con la coppia di eleganti ragazzi tornati dal prom. Ci vuole sempre uno specchio, per vedersi, e qua Marcy si vede – gli abiti stracciati, le mani sporche, i lividi – dentro lo sguardo dei “bravi ragazzi” borghesi, mentre il loro chiacchiericcio euforico si spegne, piano piano. Ma invece della vergogna, in fondo al tunnel c’è un moto d’orgoglio: «Where there is ruin, there is hope for a treasure» era il titolo del pilot di un’altra serie bellissima, The Get Down, che pure pescava a piene mani da The Warriors (e il cui finale recitava «Only from exile, we can come home», anche se nemmeno arrivati a casa i Guerrieri possono essere felici o al sicuro: davvero hanno combattuto tutta la notte per arrivare qui?). Sono i “borghesi” l’elemento estraneo, l’altro, l’alieno, il “fuori posto”: e infatti il loro punto di vista scompare nella luce dell’alba, scendendo nel nulla, a un’altra fermata della metropolitana.
Questo ribaltamento di prospettiva è quello che fa di The Warriors un successo. Nonostante zero fiducia da parte dell’industria e una campagna promozionale quasi inesistente, e nonostante all’indomani dell’uscita in sala si diffondano subito notizie di gente che si mena fuori e dentro i cinema che lo proiettano (d’altra parte, come spiegherà anche Hill, tutti i membri delle gang vanno a vederlo, ed è un niente che si trovino sedute di fianco le due persone sbagliate), spingendo gli esercenti ad assumere ulteriore security, e la Paramount a sospendere le pubblicità e anche a liberare le sale dall’obbligo di proiettare il film. Ma un sacco di sale continuano a proiettarlo comunque, perché ogni proiezione è piena rasa, con gente che s’infila in ogni pertugio disponibile, in piedi in fondo, seduta per terra, e partecipa con esaltazione e giubilo all’epopea dei Guerrieri come fosse la propria.
Oggi The Warriors è quel tipo di film che quando fai un elenco di “cult movie” non puoi non mettere ai primi posti. Ha le sue frasi iconiche (la più celebre delle quali del tutto improvvisata da quel matto totale di David Patrick Kelly), quelle che la gente cita senza magari sapere neanche da dove vengano. È stato rifatto, innumerevoli volte, in modi più o meno diretti (l’ultima volta? John Wick 4, naturalmente), ultra citato e mega parodiato, omaggiato e idolatrato: come dicevamo all’inizio è diventato quel tipo di archetipo universale, quel mattone d’immaginario che tutti conoscono e condividono, tutti hanno nel DNA, anche se non lo sanno. È entrato nel mito, e con lui i suoi Guerrieri. Senofonte e l’antica Grecia tutta ne andrebbero fieri.
Dvd quote suggerita:
“Il film di menare preferito da chi ha fatto il classico”
Xena Rowlands, i400calci.com
Dvd quote di Paolo Mereghetti:
“Sembra un videogioco”
Paolo Mereghetti, IlMereghetti
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